TESTI ESTRAPOLATI DA “PAOLO VI, MAESTRO E TESTIMONE DI FEDE”
- […] per quanto riguarda la musica nella Liturgia: non tutto è valido, non tutto è lecito, non tutto è buono. Qui il «sacro» deve congiungersi col «bello», in una armoniosa e devota sintesi […].
La Costituzione sulla S. Liturgia ha consigliato ai musicisti di comporre «melodie» che abbiano le caratteristiche della vera Musica sacra […].
Altri testi e altre musiche che, senza aspirare a varcare la soglia del tempio, accontentino peraltro le moderne esigenze, specie della gioventù, potranno essere utilizzati in altre occasioni […]. Ma nella Liturgia, «esercizio del sacerdozio di Gesù Cristo… opera di Cristo sacerdote e del suo Corpo che è la Chiesa… azione sacra per eccellenza» (Ibid. 7), occorre quanto più è appropriato a questo suo peculiare e sublime carattere. Ecco qui dove esercitare quel sensus Ecclesiae, che deve guidare il vostro giudizio e le vostre scelte.
DISCORSO DI PAOLO VI ALLE RELIGIOSE ADDETTE AL CANTO LITURGICO
Giovedì, 15 aprile 1971
- Tempus resolutionis meae instat. È giunto il tempo di sciogliere le vele (2 Tim. 4,6).
«Certus quod velox est depositio tabernaculi mei». Sono certo che presto dovrò Lasciare questa mia tenda (2 Petr. 1,14). «Finis venit, venit finis». La fine! Giunge la fine (Ez. 2,7).
Questa ovvia considerazione sulla precarietà della vita temporale e sull’avvicinarsi inevitabile e sempre più prossimo della sua fine si impone: Non è saggia la cecità davanti a tale immancabile sorte, davanti alla disastrosa rovina che porta con sé, davanti alla misteriosa metamorfosi che sta per compiersi nell’essere mio, davanti a ciò che si prepara.
Vedo che la considerazione prevalente si fa estremamente personale: io, chi sono? che cosa resta di me? dove vado? e perciò estremamente morale: che cosa devo fare? quali sono le mie responsabilità? e vedo anche che rispetto alla vita presente è vano avere speranze; rispetto ad essa si hanno dei doveri e delle aspettative funzionali e momentanee; le speranze sono per l’al di là.
E vedo che questa suprema considerazione non può svolgersi in un monologo soggettivo, nel solito dramma umano che al crescere della luce fa crescere l’oscurità del destino umano; deve svolgersi a dialogo con la Realtà divina, donde vengo e dove certamente vado; secondo la lucerna che Cristo ci pone in mano per il grande passaggio. Credo, o Signore.
L’ora viene. Da qualche tempo ne ho il presentimento. Più ancora che la stanchezza fisica, pronta a cedere ad ogni momento, il dramma delle mie responsabilità sembra suggerire come soluzione provvidenziale il mio esodo da questo mondo, affinché la Provvidenza possa manifestarsi e trarre la Chiesa a migliori fortune. La Provvidenza ha, sì, tanti modi d’intervenire nel gioco formidabile delle circostanze, che stringono la mia pochezza; ma quello della mia chiamata all’altra vita pare ovvio, perché altri subentri più valido e non vincolato dalle presenti difficoltà. «Servus inutilis sum». Sono un servo inutile.
«Ambulate dum lucem habetis». Camminate finché avete la luce (Jo. 12,35).
Ecco: mi piacerebbe, terminando, d’essere nella luce. Di solito la fine della vita temporale, se non è oscurata da infermità, ha una sua fosca chiarezza: quella delle memorie, così belle, così attraenti, così nostalgiche, e così chiare ormai per denunciare il loro passato irricuperabile e per irridere al loro disperato richiamo. Vi è la luce che svela la delusione d’una vita fondata su beni effimeri e su speranze fallaci. Vi è quella di oscuri e ormai inefficaci rimorsi. Vi e quella della saggezza che finalmente intravede la vanità delle cose e il valore delle virtù che dovevano caratterizzare il corso della vita: «vanitas vanitatum». Vanità della vanità. Quanto a me vorrei avere finalmente una nozione riassuntiva e sapiente sul mondo e sulla vita: penso che tale nozione dovrebbe esprimersi in riconoscenza: tutto era dono, tutto era grazia; e com’era bello il panorama attraverso il quale si è passati; troppo bello, tanto che ci si è lasciati attrarre e incantare, mentre doveva apparire segno e invito. Ma, in ogni modo, sembra che il congedo debba esprimersi in un grande e semplice atto di riconoscenza, anzi di gratitudine: questa vita mortale è, nonostante i suoi travagli, i suoi oscuri misteri, le sue sofferenze, la sua fatale caducità, un fatto bellissimo, un prodigio sempre originale e commovente; un avvenimento degno d’essere cantato in gaudio, e in gloria: la vita, la vita dell’uomo! Né meno degno d’esaltazione e di felice stupore è il quadro che circonda la vita dell’uomo: questo mondo immenso, misterioso, magnifico, questo universo dalle mille forze, dalle mille leggi, dalle mille bellezze, dalle mille profondità. È un panorama incantevole. Pare prodigalità senza misura. Assale, a questo sguardo quasi retrospettivo, il rammarico di non averlo ammirato abbastanza questo quadro, dì non aver osservato quanto meritavano le meraviglie della natura, le ricchezze sorprendenti del macrocosmo e del microcosmo. Perché non ho studiato abbastanza, esplorato, ammirato la stanza nella quale la vita si svolge? Quale imperdonabile distrazione, quale riprovevole superficialità! Tuttavia, almeno in extremis, si deve riconoscere che quel mondo, «qui per Ipsum factus est», che è stato fatto per mezzo di Lui, è stupendo. Ti saluto e ti celebro all’ultimo istante, sì, con immensa ammirazione; e, come si diceva, con gratitudine: tutto è dono; dietro la vita, dietro la natura, l’universo, sta la Sapienza; e poi, lo dirò in questo commiato luminoso, (Tu ce lo hai rivelato, o Cristo Signore) sta l’Amore! La scena del mondo è un disegno, oggi tuttora incomprensibile per la sua maggior parte, d’un Dio Creatore, che si chiama il Padre nostro che sta nei cieli! Grazie, o Dio, grazie e gloria a Te, o Padre! In questo ultimo sguardo mi accorgo che questa scena affascinante e misteriosa è un riverbero, è un riflesso della prima ed unica Luce; è una rivelazione naturale d’una straordinaria ricchezza e bellezza, la quale doveva essere una iniziazione, un preludio, un anticipo, un invito alla visione dell’invisibile Sole, «quem nemo vidit unquam», che nessuno ha mai visto (cfr. Jo. 1,18): «unigenitus Filius, qui est in sinu Patris, Ipse enarravit», il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, Lui lo ha rivelato. Così sia, così sia.
Ma ora, in questo tramonto rivelatore un altro pensiero, oltre quello dell’ultima luce vespertina, presagio dell’eterna aurora, occupa il mio spirito: ed è l’ansia di profittare dell’undicesima ora, la fretta di fare qualche cosa di importante prima che sia troppo tardi. Come riparare le azioni mal fatte, come ricuperare il tempo perduto, come afferrare in quest’ultima possibilità di scelta «l’unum necessarium?», la sola cosa necessaria?
Alla gratitudine succede il pentimento. Al grido di gloria verso Dio Creatore e Padre succede il grido che invoca misericordia e perdono. Che almeno questo io sappia fare: invocare la Tua bontà, e confessare con la mia colpa la Tua infinita capacità di salvare. «Kyrie eleison; Christe eleison; Kyrie eleison». Signore pietà; Cristo pietà; Signore pietà.
Qui affiora alla memoria la povera storia della mia vita, intessuta, per un verso, dall’ordito di singolari e innumerevoli benefici, derivanti da un’ineffabile bontà (è questa che spero potrò un giorno vedere ed «in eterno cantare»); e, per l’altro, attraversata da una trama di misere azioni, che si preferirebbe non ricordare, tanto sono manchevoli, imperfette, sbagliate, insipienti, ridicole. «Tu scis insipientiam meam»: Dio, Tu conosci la mia stoltezza (Ps. 68,6). Povera vita stentata, gretta, meschina, tanto tanto bisognosa di pazienza, di riparazione, d’infinita misericordia. Sempre mi pare suprema la sintesi di S. Agostino: miseria et misericordia. Miseria mia, misericordia di Dio. Ch’io possa almeno ora onorare Chi Tu sei, il Dio d’infinita bontà, invocando, accettando, celebrando la Tua dolcissima misericordia.
E poi un atto, finalmente, di buona volontà: non più guardare indietro, ma fare volentieri, semplicemente, umilmente, fortemente il dovere risultante dalle circostanze in cui mi trovo, come Tua volontà.
Fare presto. Fare tutto. Fare bene. Fare lietamente: ciò che ora Tu vuoi da me, anche se supera immensamente le mie forze e se mi chiede la vita. Finalmente, a quest’ultima ora.
Curvo il capo ed alzo lo spirito. Umilio me stesso ed esalto Te, Dio, «la cui natura è bontà» (S. Leone). Lascia che in questa ultima veglia io renda omaggio, a Te, Dio vivo e vero, che domani sarai mio giudice, e che dia a Te la lode che più ambisci, il nome che preferisci: sei Padre. Poi io penso, qui davanti alla morte, maestra della filosofia della vita, che l’avvenimento fra tutti più grande fu per me, come lo è per quanti hanno pari fortuna, l’incontro con Cristo, la Vita. Tutto qui sarebbe da rimeditare con la chiarezza rivelatrice, che la lampada della morte dà a tale incontro. «Nihil enim nobis nasci profuit, nisi redimi profuisset». A nulla infatti ci sarebbe valso il nascere se non ci avesse servito ad essere redenti. Questa è la scoperta del preconio pasquale, e questo è il criterio di valutazione d’ogni cosa riguardante l’umana esistenza ed il suo vero ed unico destino, che non si determina se non in ordine a Cristo: «o mira circa nós tuae pietatis dignatio!», o meravigliosa pietà del tuo amore per noi! Meraviglia delle meraviglie, il mistero della nostra vita in Cristo. Qui la fede, qui la speranza, qui l’amore cantano la nascita e celebrano le esequie dell’uomo. Io credo, io spero, io amo, nel nome Tuo, o Signore.
E poi ancora mi domando: perché hai chiamato me, perché mi hai scelto? così inetto, così renitente, così povero di mente e di cuore? Lo so: «quae stulta sunt mundi elegit Deus… ut non glorietur omnis caro in conspectu eius ». Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole perché nessun uomo possa gloriarsi davanti a Dio (1 Cor 1, 27-28). La mia elezione indica due cose: la mia pochezza; la Tua libertà, misericordiosa e potente. La quale non si è fermata nemmeno davanti alle mie infedeltà, alla mia miseria, alla mia capacità di tradirTi: «Deus meus, Deus meus, audebo dicere… in quodam aestasis tripudio de Te praesumendo dicam: nisi quia Deus es, iniustus esser, quia peccavimus graviter… et Tu placatus es. Nos Te provocamus ad iram, Tu autem conducis nos ad misericordiam». Mio Dio, mio Dio, oserò dire… in un estatico tripudio di Te dirò con presunzione: se non fossi Dio, saresti ingiusto, poiché abbiamo peccato gravemente… e Tu Ti plachi. Noi Ti provochiamo all’ira, e Tu invece ci conduci alla misericordia! (PL. 40, 1150).
Ed eccomi al Tuo servizio, eccomi al Tuo amore. Eccomi in uno stato di sublimazione, che non mi consente più di ricadere nella mia psicologia istintiva di pover uomo, se non per ricordarmi la realtà del mio essere, e per reagire nella più sconfinata fiducia con la risposta, che da me è dovuta: «amen; fiat; Tu scis quia amo Te», così sia, così sia. Tu lo sai che ti voglio bene. Uno stato di tensione subentra, e fissa in un atto permanente di assoluta fedeltà la mia volontà di servizio per amore: «in finem dilexit», amò fino alla fine. «Ne permittas me separari a Te». Non permettere che io mi separi da Te. Il tramonto della vita presente, che sognerebbe d’essere riposato e sereno, deve essere invece uno sforzo crescente di vigilia, di dedizione, di attesa. È difficile; ma è così che la morte sigilla la meta del pellegrinaggio terreno, e fa ponte per il grande incontro con Cristo nella vita eterna. Raccolgo le ultime forze, e non recedo dal dono totale compiuto, pensando al Tuo: «consummatum est», tutto è compiuto…
Ricordo il preannuncio fatto dal Signore a Pietro sulla morte dell’apostolo: «amen, amen dico tibi… cum… senueris, extendes manus tuas, et alius et cinget, et ducet quo tu non vis». Hoc autem (Jesus) dixit significans qua morte (Petrus) clarificaturus esset Deum. Et, cum hoc dixisset, dicit et: «sequere me». In verità, in verità ti dico… quando sarai vecchio, tenderai le tue mani, e un’altro ti cingerà e ti porterà dove tu non vuoi. Questo gli disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio. E detto questo aggiunse: «Seguimi» (Jo. 21, 18-19).
Ti seguo; ed avverto che io non posso uscire nascostamente dalla scena di questo mondo; mille fili mi legano alla famiglia umana, mille alla comunità, ch’è la Chiesa. Questi fili si romperanno da sé; ma io non posso dimenticare che essi richiedono da me qualche supremo dovere. «Discessus pius», morte pia. Avrò davanti allo spirito la memoria del come Gesù si congedò dalla scena temporale di questo mondo. Da ricordare come Egli ebbe continua previsione e frequente annuncio della sua passione, come misurò il tempo in attesa della «sua ora», come la coscienza dei destini escatologici riempì il suo animo ed il suo insegnamento, e come dell’imminente sua morte parlò ai discepoli nei discorsi dell’ultima cena; e finalmente come volle che la sua morte fosse perennemente commemorata mediante l’istituzione del sacrificio eucaristico: «mortem Domini annuntiabitis donec veniat». Annunzierete la morte del Signore finché Egli venga.
Un aspetto su tutti gli altri principale: «tradidit semetipsum», ha dato se stesso per me; la sua morte fu sacrificio; morì per gli altri, morì per noi. La solitudine della morte fu ripiena della presenza nostra, fu pervasa d’amore: «dilexit Ecclesiam», amò la Chiesa (ricordare «le mystère de Jésus», di Pascal). La sua morte fu rivelazione del suo amore per i suoi: «in finem dilexit», amò fino alla fine. E dell’amore umile e sconfinato diede al termine della vita temporale esempio impressionante (cfr. la lavanda dei piedi), e del suo amore fece termine di paragone e precetto finale. La sua morte fu testamento d’amore. Occorre ricordarlo.
Prego pertanto il Signore che mi dia grazia di fare della mia prossima morte dono, d’amore alla Chiesa. Potrei dire che sempre l’ho amata; fu il suo amore che mi trasse fuori dal mio gretto e selvatico egoismo e mi avviò al suo servizio; e che per essa, non per altro, mi pare d’aver vissuto. Ma vorrei che la Chiesa lo sapesse; e che io avessi la forza di dirglielo, come una confidenza del cuore, che solo all’estremo momento della vita si ha il coraggio di fare. Vorrei finalmente comprenderla tutta nella sua storia, nel suo disegno divino, nel suo destino finale, nella sua complessa, totale e unitaria composizione, nella sua umana e imperfetta consistenza, nelle sue sciagure e nelle sue sofferenze, nelle debolezze e nelle miserie di tanti suoi figli, nei suoi aspetti meno simpatici, e nel suo sforzo perenne di fedeltà, di amore, di perfezione e di carità. Corpo mistico di Cristo. Vorrei abbracciarla, salutarla, amarla, in ogni essere che la compone, in ogni Vescovo e sacerdote che l’assiste e la guida, in ogni anima che la vive e la illustra; benedirla. Anche perché non la lascio, non esco da lei, ma più e meglio, con essa mi unisco e mi confondo: la morte è un progresso nella comunione dei Santi.
Qui è da ricordare la preghiera finale di Gesù (Jo 17). Il Padre e i miei; questi sono tutti uno; nel confronto col male ch’è sulla terra e nella possibilità della loro salvezza; nella coscienza suprema che era mia missione chiamarli, rivelare loro la verità, farli figli di Dio e fratelli fra loro: amarli con l’Amore, ch’è in Dio, e che da Dio, mediante Cristo, è venuto nell’umanità e dal ministero della Chiesa, a me affidato è ad essa comunicato.
Uomini, comprendetemi; tutti vi amo nell’effusione dello Spirito Santo, ch’io, ministro, dovevo a voi partecipare. Così vi guardo, così vi saluto, così vi benedico. Tutti. E voi, a me più vicini, più cordialmente. La pace sia con voi. E alla Chiesa, a cui tutto devo e che fu mia, che dirò? Le benedizioni di Dio siano sopra di te; abbi coscienza della tua natura e della tua missione; abbi il senso dei bisogni veri e profondi dell’umanità; e cammina povera, cioè libera, forte ed amorosa verso Cristo.
Amen. Il Signore viene. Amen.
MEDITAZIONI DI PAOLO VI
PENSIERO ALLA MORTE (agosto 1978)
- […] La gioventù! Che cosa i giovani sentono e pensano di loro stessi? […] Che fanno di fronte a Cristo? […] tante volte, la gioventù si presenta con un aspetto infelice e spiacevole; gode di vasto credito, ma lascia quanti la guardano – genitori, educatori, responsabili del vivere pubblico – in grave e dolorosa perplessità. Incombe il pericolo che i ragazzi diventino superficiali, opachi, privi di luminosi orizzonti, scettici, perfino cinici; non sono sicuri di niente e trascorrono la vita come gente sfaccendata e anarchica.
È gioventù questa? A ben riflettere, si direbbe che, in mezzo alle file giovanili di notevole parte della generazione presente, manca Qualcuno, manca Uno che sappia, che parli, guidi, impersoni la virtù e l’esistenza stessa; Uno che intoni il vero canto della vita. Manca il Messia acclamato dai giovani palestinesi; manca il Cristo; […].
Studiate, amate Gesù; conversate con Lui. Egli non vi promette nulla di terreno: è un Messia dolce e soave; non v’incanta con parole vane; non intende dominare mediante la potenza e la coercizione. Enuncia la verità: conosce perfettamente gli uomini. Sa perdonare e ricondurre le coscienze alla integrità; rendere lieti i cuori nel profondo; è l’unico ad avere parole di vita eterna.
Pensateci, pensateci; e fate, illuminati da Dio, la vostra scelta. […]
SACRO RITO DELLA «DOMINICA IN PALMIS»
OMELIA DI PAOLO VI
II Domenica di Passione, 3 aprile 1966
- […] Per Noi, Donna è riflesso d’una bellezza che la trascende, è segno d’una bontà che Ci appare sconfinata, è specchio dell’uomo ideale, quale Dio lo concepì, sua immagine e sua sembianza. Per Noi, Donna è la visione di virginale purezza, che restaura i sentimenti affettivi e morali più alti del cuore umano; per Noi è l’apparizione, nella solitudine dell’uomo, della sua compagna, che sa le dedizioni supreme dell’amore, le risorse della collaborazione e dell’assistenza, la fortezza della fedeltà e dell’operosità, l’eroismo abituale del sacrificio; per Noi è la Madre – inchiniamoci! -, la fonte misteriosa della vita umana, dove la natura riceve ancora il soffio di Dio, creatore dell’anima immortale; per Noi è la creatura più docile ad ogni formazione, idonea perciò a tutte le funzioni culturali e sociali, a quelle specialmente più congeniali alla sua sensibilità morale e spirituale; per Noi è l’umanità, che porta in sé la migliore attitudine alla attrazione religiosa, e che, quando saggiamente la segue, eleva e sublima se stessa nell’espressione più genuina della femminilità; e che perciò, cantando? pregando, anelando, piangendo, sembra naturalmente convergere verso una figura unica e somma, immacolata e dolente, che una Donna privilegiata, fra tutte la benedetta, fu destinata a realizzare, la Vergine Madre di Cristo, Maria.
DISCORSO DI PAOLO VI AI PARTECIPANTI AL 52° CONGRESSO NAZIONALE
DELLA SOCIETÀ ITALIANA DI OSTETRICIA E DI GINECOLOGIA
Sabato, 29 ottobre 1966
- […] L’amore coniugale rivela massimamente la sua vera natura e nobiltà quando è considerato nella sua sorgente suprema, Dio, che è “Amore”, che è il Padre ” da cui ogni paternità, in cielo e in terra, trae il suo nome “. Il matrimonio non è quindi effetto del caso o prodotto della evoluzione di inconsce forze naturali: è stato sapientemente e provvidenzialmente istituito da Dio creatore per realizzare nell’umanità il suo disegno di amore. Per mezzo della reciproca donazione personale, loro propria ed esclusiva, gli sposi tendono alla comunione delle loro persone, con la quale si perfezionano a vicenda, per collaborare con Dio alla generazione e alla educazione di nuove vite. Per i battezzati, poi, il matrimonio riveste la dignità di segno sacramentale della grazia, in quanto rappresenta l’unione di Cristo e della chiesa.
In questa luce appaiono chiaramente le note e le esigenze caratteristiche dell’amore coniugale, di cui è di somma importanza avere un’idea esatta. È prima di tutto amore pienamente umano, vale a dire sensibile e spirituale. Non è quindi semplice trasporto di istinto e di sentimento, ma anche e principalmente è atto della volontà libera, destinato non solo a mantenersi, ma anche ad accrescersi mediante le gioie e i dolori della vita quotidiana; così che gli sposi diventino un cuor solo e un’anima sola, e raggiungano insieme la loro perfezione umana. È poi amore totale, vale a dire una forma tutta speciale di amicizia personale, in cui gli sposi generosamente condividono ogni cosa, senza indebite riserve o calcoli egoistici. Chi ama davvero il proprio consorte, non lo ama soltanto per quanto riceve da lui, ma per se stesso, lieto di poterlo arricchire del dono di sé. È ancora amore fedele ed esclusivo fino alla morte. Così infatti lo concepiscono lo sposo e la sposa nel giorno in cui assumono liberamente e in piena consapevolezza l’impegno del vincolo matrimoniale. Fedeltà che può talvolta essere difficile, ma che sia sempre possibile, e sempre nobile e meritoria, nessuno lo può negare. L’esempio di tanti sposi attraverso i secoli dimostra non solo che essa è consentanea alla natura del matrimonio, ma altresì che da essa, come da una sorgente, scaturisce una intima e duratura felicità. È infine amore fecondo, che non si esaurisce tutto nella comunione dei coniugi, ma è destinato a continuarsi, suscitando nuove vite […].
LETTERA ENCICLICA DEL SOMMO PONTEFICE PAOLO PP. VI
HUMANAE VITAE
- […] Maria! insegna a noi l’amore […] Maria, l’amore chiediamo, l’amore a Cristo, l’amore unico, l’amore sommo, l’amore totale, l’amore dono, l’amore sacrificio; insegna a noi, ciò che già conosciamo e già umilmente e fedelmente professiamo: ad essere immacolati, come Tu lo sei […]
Ciò che più occorre alla Chiesa […] prima d’ogni altra cosa è la fede, la fede soprannaturale, la fede semplice, piena e forte, la fede sincera, attinta alla sua fonte verace, la Parola di Dio, e al suo canale indefettibile, il magistero istituito e garantito da Cristo, la fede viva. O Tu, «beata che hai creduto», confortaci col Tuo esempio, ottienici questo carisma […] E poi, o Maria, chiederemo al Tuo esempio e alla Tua intercessione la speranza. Spes nostra, salve! Anche di speranza abbiamo bisogno, e quanta! Tu sei, Maria, come conclude il Concilio la sua grande lezione sulla Chiesa di Dio (Lumen Gentium, n. 68), immagine e inizio della Chiesa, la quale dovrà avere il suo compimento nell’età futura, così sulla terra, risplendi ora innanzi al Popolo di Dio quale segno di certa speranza e di consolazione, o Mater Ecclesiae!
ASSEMBLEA STRAORDINARIA DEL SINODO DEI VESCOVI
OMELIA DI PAOLO VI
Basilica Liberiana di Santa Maria Maggiore
Sabato, 25 ottobre 1969
- Fratelli nel mondo! Ascoltate ora la parola conclusiva dell’Anno Santo […] noi abbiamo osato, noi uomini di questo splendido e babelico secolo, trepidanti e coraggiosi, battere ancora alla porta, da noi stessi deserta, della casa paterna, cioè della reviviscenza all’economia del Vangelo, quella della riconciliazione con l’armonia primaria, con Te, o Dio della giustizia e della bontà.
Noi lo ricorderemo per sempre: un atto, un patto di religione ha cercato di ricollegare, con esito positivo, questa nostra vita, così detta moderna, la nostra vita attuale, storica, civile, qualunque sia, negatrice, scettica, aberrante, indifferente, ovvero ancora pia e fedele, con Te, Dio, prima, vera, unica, ineffabile sorgente della Vita, che non si spegne, e che dovunque risplende. Tu sei, o Dio, per ogni verso, Necessario. Tu sei oggi nostro, o Dio, insostituibile, Dio mistero di pace e di beatitudine.
[…] la Fede è la Vita. È la Vita, perché raggiunge Te, o Dio, sia pure sulla riva-limite della nostra capacità di conoscere e di amare; Te, oceano dell’Essere, pienezza superante e incombente d’ogni Esistenza, cielo dell’insondabile profondità, non solo della terra e del cosmo, ma pari solo a Te stesso, infinito oltre lo spazio, Padre di tutto quanto esiste. La Vita sei Tu, Dio, sospeso come una lampada beatificante sulla penombra della nostra balbettante esperienza […]
Comprenderemo noi, o Cristo, fatto pastore davanti ai nostri passi frettolosi di toccare fin d’ora, nel periodo così breve e fugace, riservato al nostro esperimento di tuoi autentici seguaci, una meta degna e concreta, comprenderemo noi il «segno dei tempi», ch’è l’amore a quel prossimo, nella cui definizione Tu hai racchiuso ogni uomo, sì, ogni uomo bisognoso di comprensione, di aiuto, di conforto, di sacrificio, anche se a noi personalmente ignoto, anche se fastidioso ed ostile, ma insignito dall’incomparabile dignità di fratello? […]
Non l’odio, non la contesa, non l’avarizia sarà la sua dialettica, ma l’amore, l’amore generatore d’amore, l’amore dell’uomo per l’uomo, non per alcun provvisorio ed equivoco interesse, o per alcuna amara e mal tollerata condiscendenza, ma per l’amore a Te; a Te, o Cristo scoperto nella sofferenza e nel bisogno di ogni nostro simile. La civiltà dell’amore prevarrà nell’affanno delle implacabili lotte sociali, e darà al mondo la sognata trasfigurazione dell’umanità finalmente cristiana […].
SOLENNE RITO DI CHIUSURA DELL’ANNO SANTO
OMELIA DEL SANTO PADRE PAOLO VI
Natale del Signore, 25 dicembre 1975